Lo scompenso cardiaco acuto (AHF) è definito come peggioramento o comparsa de novo di segni e sintomi di insufficienza cardiaca e costituisce la prima causa di ospedalizzazione non programmata negli ultrasessantacinquenni.
Lo scompenso cardiaco de novo solitamente richiede degli approfondimenti diagnostici più estensivi al fine di definirne la causa rispetto alla riacutizzazione di scompenso cronico.
I segni e sintomi clinici sono tipicamente legati alla congestione sistemica (ovvero accumulo di fluidi extracellulare accompagnato dall’aumento delle pressioni di riempimento di uno o entrambi i ventricoli).
La tipizzazione secondo la frazione d’eiezione in scompenso a frazione d’eiezione ridotta (HFrEF) o preservata (HFpEF) ha delle implicazioni diagnostiche, prognostiche e terapeutiche, in quanto le due forme tendono a differire per eziologia, storia naturale e risposta alla terapia, in quanto diversi farmaci si sono dimostrati meno efficaci in termini di riduzione di mortalità e ricoveri per scompenso nell’HFpEF.
Nonostante negli ultimi anni nuove opzioni terapeutiche abbiano provocato miglioramenti sostanziali nel trattamento dello scompenso, tale condizione rimane comunque associata a degli outcomes sfavorevoli (mortalità intraospedaliera del 4%, di circa il 10% a 60-90 giorni dal ricovero, del 25-30% a un anno).

Una proposta di standardizzazione: il protocollo 7-P

Il protocollo 7-P (phenotype, pathophysiology, precipitants, pathology, polymorbidity, potential iatrogenic harms, patient preferences) può essere utile per sistematizzare l’approccio al paziente con scompenso cardiaco acuto e standardizzarne la gestione fin dall’accesso in pronto soccorso.

  1. La fenotipizzazione nei quattro profili emodinamici in base a presenza/assenza di congestione e ipoperfusione (dry and warm ovvero – in buon compenso – non congesto e normoperfuso, wet and warm, dry and cold, wet and cold) dovrebbe essere effettuata all’ingresso (valutazione clinica, EGA arterioso, RX torace, ecocardiogramma ed ecografia del torace) in quanto capace di identificare i pazienti a rischio di eventi avversi più elevato.
  2. La fisiopatologia del singolo paziente (il fenotipo clinico, la distribuzione dei fluidi in eccesso e la perfusione periferica) deve orientare la terapia verso farmaci diversi (ad es. diuretici e vasodilatatori per ridurre la congestione sistemica e inotropi in caso di ipoperfusione periferica).
  3. Necessaria è l’identificazione di cause precipitanti, tra le quali ricordiamo le sindromi coronariche acute, le aritmie (in primis la fibrillazione atriale), le infezioni (soprattutto broncopolmonari), l’ipertensione mal controllata, la scarsa complianza alla terapia prescritta (o utilizzo di FANS) e alla dieta Una proporzione significativa (40-50%) dei pazienti non ha una chiara causa precipitante identificabile, mentre fino al 20% riconosce più cause.
  4. Parimenti importante è l’identificazione di una patologia cardiaca sottostante che possa orientare la gestione (es. lesione valvolare severa, endocardite, miocardite, cardiopatia congenita, cardiomiopatie ipertrofiche, cardiomiopatie restrittive, amiloidosi cardiaca).
  5. Le comorbilità devono essere tenute in conto nella gestione (in primis disfunzione renale o epatica, rischio tromboembolico o emorragico)
  6. Potenziali cause iatrogene vanno prese in considerazione (anche da procedure diagnostiche o terapeutiche)
  7. Preferenze del paziente impattano nel processo decisionale ed eventuali strategie terapeutiche, anche avanzate, vanno discusse con esso e la famiglia preferibilmente prima di eventuali deterioramenti. I pazienti senza prospettive terapeutiche a lungo termine dovrebbero essere indirizzati a palliazione e terapia di supporto.

 

Stratificazione del rischio al ricovero

Numerose variabili cliniche possono aiutare a stratificare il rischio di eventi avversi, molte sono già note al momento del ricovero, altre sono rapidamente valutabili con esami ematochimici e valutazione clinica, altre ancora saranno da valutare alla dimissione:

  • Età, il numero di ospedalizzazioni per HF, nota FEVS bassa in HFrEF, disfunzione ventricolare destra
  • Classe NYHA IV all’ingresso, marcato aumento peptidi natriuretici, elevata urea, bassa clearance creatinina, ipotensione, iponatriemia, diuretico resistenza, bassa sodiuria spot dopo diuretico, profilo “wet & cold”, aumento della troponina, necessità di intubazione orotracheale o terapia con inotropi

Tra i pazienti che si presentano in PS con AHF è possibile risconoscerne alcuni a basso rischio (in cui tutte le seguenti condizioni siano soddisfatte: presentazione non critica che richieda ricovero in UTIC/rianimazione, non primo ricovero per scompenso che richieda workup diagnostico, assenza di marcata congestione, basso rischio e complessità, non necessità di approfondimenti diagnostici) che è possibile dimettere al domicilio (in presenza di buona compliance terapeutica, supporto familiare e capacità di self-management) e rivalutare a 7-10 giorni.

 

Terapia dello scompenso cardiaco

Tipicamente, il diuretico dell’ansa costituisce il primo cardine nella terapia dello scompenso cardiaco acuto (20-40 mg e.v. di Furosemide nel paziente naive o 1-2 volte la dose giornaliera p.o. somministrata e.v.).

I vasodilatatori (nitroglicerina, sodio nitroprussiato) possono essere utilizzati per ridurre precarico e postcarico ventricolare (quindi lo stress di parete e il consumo miocardico di ossigeno) ed ottenere un miglioramento della dispnea. Inotropi e vasopressori si riservano, alla minima dose efficace, ai casi in cui ci sia ipoperfusione periferica (shock).

La profilassi del tromboembolismo venoso è raccomandata in tutti i pazienti non scoagulati e senza controindicazioni all’anticoagulazione per ridurre rischio di TVP o EP.

L’ossigeno supplementare dovrebbe essere utilizzato nei pazienti con SpO2 < 90% o PaO2 < 60 mmHg, ma non di routine in pazienti non ipossiemici dato che causa vasocostrizione e decremento del cardiac output. La ventilazione non invasiva a pressione positiva può avere un ruolo nei pazienti con distress respiratorio (FR > 25 atti/min e SpO2 < 90%) per diminuire il distress respiratorio e ridurre il rischio di intubazione orotracheale, quest’ultima raccomandata in caso di insufficienza respiratoria grave o progressiva nononstante la ventilazione non invasiva o in caso di incapacità a proteggere le vie aeree.

Durante terapia diuretica, è essenziale monitorare l’andamento clinico e laboratoristico della congestione. Segni di inadeguata decongestione sono la persistenza di sintomi e segni di scompenso, la mancata/scarsa diminuzione dei peptidi natriuretici, la mancata perdita di peso (tipicamente perdita di 4-8 kg). Cause comuni di congestione residua da tenere in considerazione sono la bassa portata, lo scompenso cardiaco destro, insufficienza renale avanzata e l’ipotensione sintomatica. In caso di inadeguata decongestione le strategie terapeutiche possono essere molteplici, dall’escalation del diuretico dell’ansa o la combinazione di diuretici (tiazidici, MRA, metolazone), fino agli inotropi, la terapia sostitutiva renale e le terapie avanzate (tMCS/LVAD/trapianto) nei casi in peggioramento/refrattari.

Segni di adeguata decongestione sono la scomparsa dei rumori polmonari e della dispnea, dell’ortopnea e dell’epatomegalia, calo della pressione venosa giugulare < 6-8 mmHg e assenza di reflusso epatogiugulare.

Quando la traiettoria del paziente sembra volgere verso la decongestione e l’emodinamica è stabile (in assenza di complicanze) il diuretico viene deescalato (o passato per os) e iniziata/titolata la GDMT, nel frattempo dovrebbero essere stabiliti gli obiettivi di cura e gestite le eventuali comorbilità.

Numerose sono le terapie raccomandate dalle linee guida per il trattamento dello scompenso cardiaco a frazione d’eiezione ridotta (guideline-directed medical therapy, GDMT), le classi raccomandate per la maggior parte dei pazienti sono i beta-bloccanti (BB), ACE-inibitori (ACE-i), inibitori del recettore dell’angiotensina (ARB), inibitori del recettore dell’angiotensina e delle neprilisine (ARNI), antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi (MRA). Recentemente gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio tipo 2 (SGLT2i) sono entrati in pratica clinica visti gli ottimi risultati dei trial clinici condotti.

La quad-therapy (ARNI + BB + MRA + SGLT2i) è attualmente il gold standard della terapia dell’insufficienza cardiaca cronica a frazione di eiezione ridotta (HR per mortalità per tutte le cause 0.39 [0.31 – 0.49], riduzione di rischio relativo per mortalità del 74%.

Negli ultimi anni si cerca di perseguire sempre più un inizio e titolazione precoce della GDMT cercando di implementare la terapia orale durante il ricovero (raccomandazione classe I C secondo ESC), anche se alcuni interrogativi sorgono circa i farmaci da iniziare o titolare per primi, se iniziare più farmaci insieme o aggiungerli in sequenza, o ancora quanto tempo aspettare prima di titolare un farmaco.

Pur in assenza di indicazioni univoche, un approccio suggerito è quello di iniziare le classi di farmaci nell’ordine con cui sono state studiate nei trial clinici: ACEi o ARB, seguiti da BB, e infine inizio di MRA, successivamente SGLT2i, processo che può richiedere tempo ulteriore nella transizione da ACEi/ARB ad ARNI.

Alcune strategie proposte vedono inizio precoce di ACEi/ARB/ARNI + MRA + SGLT2i, successivamente BB previa adeguata decongestione, gli scenari clinici possono essere diversi a seconda del paziente, ma sempre in assenza di controindicazioni e con un profilo emodinamico “wet & warm”, cercando di iniziare i BB quando il paziente è in miglioramento clinico:

  • Ipotensione: inizio MRA + SGLT2i, successivo inizio BB, in ultima istanza ACEi/ARB
  • Insufficienza renale cronica o funzione renale in peggioramento: inizio SGLT2 + BB, successivo inizio MRA, in ultima istanza ACEi/ARB/ARNI o H-ISDN
  • Rischio di bassa portata: inizio con ACEi/ARB/ARNI + SGLT2i + MRA, in ultima istanza BB.

 In aggiunta alla quad therapy che abbiamo detto ridurre la mortalità, ci sono ulteriori interventi che possono essere intrapresi (se indicati), dal diuretico in cronico nei pazienti con persistente congestione, l’Ivabradina nei pazienti in ritmo sinusale (> 70 bpm) e già in OMT, il ferro carbossimaltosio in caso di carenza marziale, la digossina nei pazienti con fibrillazione atriale (oltre all’immanacabile anticoagulante), idralazina o isosorbide dinitrato.

Interventi non farmacologici vanno dal defibrillatore impiantabile/terapia di resincronizzazione cardiaca – nei casi in cui siano indicate – alla riparazione percutanea edge-to-edge della valvola mitrale, fino ai supporti meccanici a lungo termine (LVAD) e il trapianto di cuore in pazienti selezionati con scompenso cardiaco avanzato.

 

Stratificazione del rischio alla dimissione

Nella stratificazione del rischio alla dimissione una decongestione efficace è associata con migliore prognosi, così come una riduzione dei peptidi natriuretici >30-60%, sono invece associati a rischio aumentato elevata urea, elevata dose diuretico alla dimissione, ipotensione, iponatriemia, intolleranza a ACEi/ARB (mortalità a 1 anno in caso di sospensione per ipotensione o intolleranza alla terapia sfiora il 50%), dimissione senza BB.

Si raccomanda, nei pazienti con labile compenso emodinamico che preclude l’utilizzo di inibitori neuroormonali, di tenere in considerazione eventuali terapie avanzate se indicate (per età e comorbilità).

 

Follow up

I pazienti dimessi con nuove terapie dovrebbero essere contattati dopo pochi giorni e a più riprese fino alla prima visita di follow-up e dovrebbero controllare elettroliti e funzione renale a 7 giorni.
Considerato l’elevato tasso di riospedalizzazioni (fino al 25%) dei pazienti dimessi per AHF, è necessario programmare la visita di follow-up e attuare il cosiddetto “management program” multidisciplinare: in esso sono contenute numerose raccomandazioni, tra cui stile di vita sano (dieta ricca di fibre e vegetali, ridotto intake di alcol e sale, igiene del sonno, ecc.), esercizio fisico (dimostrato miglioramento capacità di esercizio, della qualità della vita e riduzione delle ospedalizzazioni), esercizio supervisionato per i pazienti con malattia più severa o fragili, l’immunizzazione per influenza e pneumococco, l’automonitoraggio e l’automanagement dei sintomi (controllo peso corporeo e edemi declivi, eventuali automodulazioni del diuretico). In alcuni casi si può considerare l’utilizzo di un telemonitoraggio non invasivo per ridurre rischio di ospedalizzazioni e morte.

La visita di follow-up è raccomandata 1-2 settimane post-dimissione per valutare eventuali segni di congestione, tolleranza ai farmaci e inizio/titolazione della GDMT, non meno importante sarà poi gestire e trattare le comorbilità intercorrenti(fibrillazione atriale, sindromi coronariche croniche, insufficienza mitralica funzionale o altre valvulopatie, diabete mellito, cancro, stroke, insufficienza renale, ferrocarenza, alterazioni degli elettroliti, obesità, pneumopatie, gotta e artrite, depressione).

Esistono tuttora numerosi gap-in-evidence sulla GDMT nello scompenso cardiaco, anche se l’inizio intraospedaliero ha evidenze crescenti circa la sua efficacia e sicurezza. I medici dovrebbero utilizzare un evento quale l’ospedalizzazione per AHF come opportunità per ottimizzare la terapia (se possibile) e riprogrammare il follow-up.

Restiamo in attesa di nuovi studi che possano sciogliere i dubbi circa inizio e titolazione della GDMT soprattutto in fenotipi e scenari clinici specifici.

 

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